Francesco Guccini



(Da un'intervista a cura di Linda Altomonte Redazione Centro Studi ASIA Dicembre 2007)
Si tende ad appartenere a una cultura… ammesso che questa cultura ci possa ancora essere, però, perché oggi la televisione livella tutto, praticamente. Si trova poi più una cultura nei piccoli centri, che rimangono ancora attaccati a certe tradizioni, che nelle città: qui ovviamente c’è più mescolanza, più fermento. Personalmente, a Pavana sento ancora questo senso di appartenenza: è un piccolo popolo, sono ancora molto legati gli uni agli altri, se c’è un funerale ci vanno tutti, ci si aiuta… Non sono sempre solo rose e fiori, intendiamoci. Però c’è un’appartenenza. Politicamente parlando, al paese ho degli amici di vecchissima data che sono completamente diversi da me: io sono di Sinistra, loro non lo sono; però ci conosciamo da tanto tempo. Ho un amico che tutte le mattine va a comperare per sé il giornale: per me compra L’Unità e Repubblica, poi me li porta a casa, per dire. Quest’amicizia non l’avrei in città con uno che la pensa diversamente da me: sarebbe molto più difficile, credo. Là c’è questo senso di appartenere a delle tradizioni: abbiamo passato l’infanzia assieme, abbiamo passato esperienze di fiumi, di boschi. Questo può essere un senso d’appartenenza.
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 io non sono d’accordo sul fatto che le mie canzoni siano ‘politiche’; o quantomeno, lo sono perché ciascuno di noi è un individuo politico, ma più che altro, se devo proprio definirle, direi ‘esistenziali’, da un certo punto di vista, ma assolutamente non politiche. Ho sempre detto che fare una canzone politica è come fare l’inno alla squadra di calcio: se uno fa l’inno alla squadra di calcio o lo fa positivo o non lo fa. La politica ha bisogno anche della critica, ha bisogno anche dell’ironia. La locomotiva forse era una canzone politica, ma qua si ritorna al discorso delle radici: in quel disco c’erano vari aspetti delle radici, e uno di questi era relativo al periodo fra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento: ho fatto una canzone ‘à la’, cioè proprio ‘nello stile di’ quelli che facevano canzoni anarchiche in quegli anni: uso parole, nel contesto della canzone, che altrove non userei mai… Non credo a una rivolta fatta con le canzoni, né quantomeno a un certo tipo di rivolta che riguarda secoli passati o esperienze passate, sicuramente non contemporanee.
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 io non mi sento artista. Ma il suo ruolo è quello di suscitare pensieri, forse, suscitare non dico meditazioni ma dare qualcosa cui pensare, anche semplicemente raccontando una storia, inventando dei personaggi. A volte, poi, inventando dei personaggi ci si sente – scherzosamente – un demiurgo: io ho scritto dei gialli e mi dicevo “Mah, questo lo facciamo morire? Ma no…”. (Ride). Ovviamente in maniera scherzosa e superficiale. Però le canzoni, i libri hanno un potere… ci son dei libri importantissimi, altri che non sono ugualmente importanti, che però possono anche solo divertire. Che non è poco.
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Ho cominciato a leggere Pinocchio a cinque anni, quindi prima di andare a scuola, e da allora non ho più smesso… Da ragazzino tutti i testi di avventura, poi gli Americani (eravamo molto ‘americani’, in quel periodo): Hemingway, Dos Passos, Steinbeck… E in seguito sono arrivati Borges e i classici… sono un grande lettore; ascolto molta meno musica di quanto non si pensi, e invece leggo moltissimo: in una settimana anche due, tre libri!
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 quando si è giovani ci si ritiene immortali, perché c’è tanto, tanto tempo davanti; poi passati i cinquanta uno si rende conto che gli anni che ha vissuto sono sicuramente meno di quelli che avrà da vivere, perché a meno che uno non diventi centenario – caso rarissimo –si muore prima dei cento. Allora uno comincia a pensarci: “Insomma, i cinquanta che ho vissuto sono di più di quelli che mi spettano, mi toccano…”. Certo, questi sono pensieri così, come dicevo prima non è che ci pensi tutti i giorni. E però, quando muore un amico, com’è morto Gaber, com’è morto Victor Sogliani, com’è morto Bonvi, come Augusto dei Nomadi, De André, tutti in maniera diversa, ma sono compagni di strada, che ho conosciuto… li ho conosciuti quando eravamo tutti più giovani. E questi sono già andati, ci siam già salutati… tiriamo avanti, cerchiamo di pensarci il meno possibile.
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I preti e i materialisti sono diverse facce di uno stesso integralismo; ovviamente non tutti i preti e non tutti i materialisti sono così. L’integralismo per me è un gran difetto, perché l’integralista è sicuro della propria verità, e per la propria verità compie anche misfatti orrendi, e questo tutti gli integralisti, siano essi cattolici, siano essi musulmani, o ebrei. Io ho un senso, da laico, da agnostico (non sono ateo perché si fa troppa fatica: essere agnostico è una via, per così dire, ‘di mezzo’…), ho un vago senso di… di… un panteistico senso delle cose, della natura; io penso che dopo la morte non ci sia niente, però penso sempre ai miei vecchi, come se ci fossero ancora, come se fossero presenti, anche se so benissimo che non lo sono più… Più che il senso del sacro, un senso… di spiritualità, senza chiamare in causa l’anima (ovviamente non credo all’esistenza dell’anima), però un senso di ‘umanesimo’. Ecco, questa forse è la parola giusta. Quindi il sacro dell’umanesimo, il sacro dello spirito umano che si domanda, che cerca di andare avanti, a volte soprattutto sapendo che non risolverà se stesso dal punto di vista di una ‘coscienza che si placa’, ma di una coscienza che sempre dev’essere in movimento.
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