Pablo Neruda



Sono il disperato, la voce senza eco... colui che tutto ebbe, colui che tutto perse.
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Amore, quando ti diranno che t'ho dimenticata, e anche se sarò io a dirlo, quando io te lo dirò, non credermi.
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Voglio che all'uscita delle fabbriche e miniere stia la mia poesia fissa alla terra, all'aria, alla vittoria dell'uomo maltrattato.
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Amo ciò che di tenace ancora sopravvive nei miei occhi, nelle mie camere abbandonate dove abita la luna, e ragni di mia proprietà, e distruzioni che mi sono care, adoro il mio essere perduto, la mia sostanza imperfetta.
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Non assomigli più a nessuna da quando ti amo.


Non sono solo ira e dolore... forza io sono di pietra pensosa, allegria di mani insieme allacciate. Infine, sono libero entro gli esseri. E tra gli esseri, come l'aria vivo, e dalla solitudine assediata esco verso il folto delle battaglie a conquistare gioie indomabili.
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Frughino pure i becchini le sostanze di sorte funesta: innalzino pure gli spenti frammenti della cenere, e parlino col linguaggio del verme. Io ho dinanzi a me solo sementi, evoluzioni radiose e dolcezza.
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Come una coppa albergasti l'infinita tenerezza e l'infinito oblio t'infranse come una coppa.
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 Succede che mi stanco dei miei piedi e delle mie unghie, e dei miei capelli e della mia ombra. Succede che mi stanco di essere uomo.
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La parola è un'ala del silenzio.
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