Mario Giacomelli



Per me non è importante la foto singola ma la serie, il racconto.
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Quasi sempre mi capita di vedere le foto prima di farle.
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All’ospizio sono andato per un anno senza macchina fotografica, perchè non volevo che sentissero la macchina puntata. Ero un vecchio come loro.
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Quello che mi importa è l’età, il tempo. Tra me e il tempo c’è una discussione sempre aperta, una lotta continua. L’ospizio me ne dà una dimensione più esatta.
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Non ho niente contro i vecchi o contro l’ospizio. Solo contro il tempo, questo presente che non esiste mai, già il momento in cui parliamo è fatto un pò di prima, un pò di dopo, di passato e di futuro.
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La fotografia è una cosa semplice. A condizione di avere qualcosa da dire.

 
Photo Mario Giacomelli

Ci sono delle cose che non vogliono essere riprese.
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Ogni immagine è il ritratto mio, come se avessi fotografato me stesso.
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La fotografia ti permette di testimoniare del passaggio tuo su questa terra, come un blocco di appunti.
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Ho scoperto che questo mezzo meccanico, freddo come dicono, permette di rendere delle verità che nessuna altra tecnica può rendere.
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Io credo all’astrattismo, per me l’astrazione è un modo di avvicinarsi ancora di più alla realtà.
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Lo sfocato, il mosso, la grana, il bianco mangiato, il nero chiuso sono come esplosione del pensiero che dà durata all’immagine, perché si spiritualizzi in armonia con la materia, con la realtà, per documentare l’interiorità, il dramma della vita.

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Non mi interessa tanto documentare quello che accade, quanto passare dentro a quello che accade
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Le fotografie che contano di più sono forse quelle che ho vissuto senza scattarle.
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Per l’ospizio non ho fatto programmi... invece ho programmato nel caso di certi paesaggi, alcuni addirittura li ho costruiti io. Vengo con il contadino, con il trattore, dico : “Vorrei fare dei segni qui”, costruisco la fotografia come un quadro.
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Le rughe della terra e della pelle mi insegnano delle cose che non conoscevo.
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Vedo le immagini del poeta, ma poi cerco emozioni nuove, come se mi lasciassi prendere per mano e portare per strade dove mi sembra di essere sempre passato, e dove invece non sono mai passato. E certe immagini, che prima non mi dicevano niente, da quel momento parlano, respirano.
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Il linguaggio diventa traccia, necessità, spirito dove la forma si sprigiona non dall’esterno, ma dall’interno in un processo creativo.
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Prima di ogni scatto c’è uno scambio silenzioso tra oggetto e anima, c’è un accordo perché la realtà non esca come da una fotocopiatrice, ma venga bloccata in un tempo senza tempo per sviluppare all’infinito la poesia dello sguardo che è per me forma e segno dell’inconscio
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Il linguaggio è così la coscienza espressiva interna che ha accarezzato la realtà pur rimanendo fuori, è l’attimo originale, testimone di una realtà tutta mia, un prelievo fatto sotto la pelle dell’oggetto, guidato fuori dalle regole per una libertà che è anche allargamento alle possibilità del reale.
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